(Di Leonardo Bison e Carlo Di Foggia – ilfattoquotidiano.it)- Non si sa se il Ponte sullo Stretto di Messina verrà mai costruito, ed è lecito dubitarne, nel frattempo però si procede nella solita operazione che è poi la vera essenza del Ponte da decenni: distribuire consulenze, incarichi, posti di lavoro, soldi. Nella bozza del decreto Omnibus “asset e investimenti”, trapelata ieri pomeriggio, tra caro voli, taxi, aiuti alla pesca e alle zone alluvionate, c’è infatti un intero articolo dedicato alla Stretto di Messina S.p.a., la società concessionaria incaricata di realizzare l’opera, che Matteo Salvini ha deciso di far rinascere per decreto nel marzo scorso dalla liquidazione cui l’aveva destinata nel 2013 il governo Monti fermando il progetto. Il decreto prevede un bel pacchetto di deroghe: al tetto massimo di stipendio previsto per le società sotto controllo pubblico; all’obbligo di attenersi alle norme che regolano la gestione del personale nelle società pubbliche e al tetto massimo di ricapitalizzazioni previste per il 2023 dallo stesso decreto di marzo.
L’articolo consta di quattro commi ed è interamente dedicato a fare della Stretto di Messina un unicum nel panorama delle società a capitale pubblico, tutte vincolate a obblighi sul tetto di spesa, sulle assunzioni e sulla gestione del personale. Il primo comma elimina il tetto massimo di 240mila euro annui per “amministratori, titolari e componenti degli organi di controllo, dirigenti e dipendenti” della società, oltre a svincolare la remunerazione variabile dai “risultati di bilancio raggiunti dalla società nel corso dell’esercizio precedente”. Le norme permettono poi di derogare in toto a tutti i vincoli e le norme che regolano la gestione del personale nelle società a partecipazione pubblica, da quelle sul lavoro subordinato, alle retribuzioni, fino alla trasparenza e ai principi di economicità. I commi seguenti ribadiscono il punto, andando a intervenire su tutte le leggi pregresse. Insomma, mano libera ai vertici della società, anche di percepire emolumenti fuori scala, così come i dirigenti. Alla guida, peraltro, Salvini ha chiamato Pietro Ciucci, storico ras dell’opera (ha guidato Sdm per dieci anni, è stato presidente dell’azionista di maggioranza, Anas, e commissario per l’opera nei governi Berlusconi), che ha contribuito a trasformare in una saga legale infinita grazie alle penali garantite ai costruttori.
Il decreto velocizza poi l’aumento di capitale previsto dal decreto, derogando anche al limite previsto per il 2023, cioè i 50 milioni stanziati dalla vecchia legge di Bilancio, peraltro destinati a un nuovo studio di fattibilità per alternative progettuali: non servirà dal momento che Salvini ha deciso di ripristinare il vecchio progetto del consorzio Eurolink, capitanato da Webuild, in causa con lo Stato. Il testo prevede che Tesoro e ministero delle Infrastrutture salgano nell’azionariato della Sdm versando i 50 milioni e rilevando dall’Anas la sua quota di 320 milioni, sulla base di una perizia effettuata da esperti nominati dallo stesso ministero dell’Economia.
Se approvate, le norme vanno a cesellare la rinascita della Sdm, come si suol dire, alla vecchia maniera, visto che la società dagli anni 80 a oggi ha speso circa 900 milioni, senza praticamente posare una pietra, solo in studi, consulenze e progetti. Il nuovo ponte, come da Def, di base dovrebbe costare 15 miliardi, il 60% in più di quanto previsto nel 2012, quando l’opera venne fermata dal governo Monti proprio perché ritenuta un’inutile spreco di soldi. Eurolink ha fatto causa allo Stato, chiedendo 700 milioni, ma in primo grado ha perso. L’appello è stato sospeso dopo il decreto di Salvini, che impone alla società di trovare un accordo. L’Autorità anticorruzione ha spiegato che il decreto, per come è costruito, è un enorme favore a Eurolink. Ma a Salvini non importa.