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lunedì, 25 Novembre, 2024
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Il boss Sebastiano Nirta indagato in relazione all’omicidio del Brigadiere dei Carabinieri Tripodi

La Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria ha iscritto Sebastiano Nirta, soprannominato “Scalzone”, 66 anni, di San Luca, ma residente a Bovalino, nel registro delle indagati in relazione all’omicidio del brigadiere dei Carabinieri Carmine Tripodi, assassinato nel paese aspromontano il 6 febbraio del 1985. L’indagine, a cura dei pubblici ministeri Alessandro Moffa e Diego Capece Minutolo, riguarda “accertamenti tecnici irripetibili di tipo biologico” affidati al Ris di Messina su alcuni reperti rinvenuti nell’Ufficio Corpi di reato del Tribunale di Locri indumenti, sassi, toppe d’asfalto e altro) rinvenuti sulla scena del delitto, finalizzati alla rivelazione di materiale organico (tracce ematiche) utile all’estrapolazione di un profilo genetico per identificare gli autori dell’omicidio del sott’ufficiale dell’Arma. Secondo quanto si è appreso, l’inchiesta riaperta dalla Procura distrettuale di Reggio Calabria, coinvolge anche altre quattro persone, di cui al momento non sono note le generalità. Lo svolgimento degli accertamenti tecnici di natura biologica sui reperti sequestrati si terrà nella giornata di domani, a Messina, nei laboratori specialisti dei carabinieri del Ris.

Carmine Tripodi aveva compiuto 25 anni quando fu assassinato alle porte di San Luca, in Aspromonte, da un commando della ‘ndrangheta. Originario di Torre Orsaia, in provincia di Salerno, al giovane sottufficiale dell’Arma, nel 1982, a soli 22 anni, era stato affidato il comando della stazione di San Luca, nel periodo di massima espansione dei sequestri di persona a scopo estorsivo, il primo trampolino di lancio della ‘ndrangheta per realizzare gli ingenti capitali, poi riciclati nel traffico internazionale degli stupefacenti e nelle attività immobiliari lungo i paesi della riviera della Locride.
Il brigadiere Carmine Tripodi, nonostante la giovane età, dimostro’ ben presto il suo valore, indagando sui sequestri, come quello dell’ingegnere napoletano Carlo De Feo, riuscendo ad arrestare numerosi esponenti e gregari della ‘ndrangheta “santolucota”. La sua vivacità investigativa, però, non poteva essere sopportata a lungo dalle ‘famiglie’ aspromontane, che alla fine decisero di assassinarlo.
Carmine Tripodi aveva da poco lasciato il suo lavoro nella caserma di San Luca, per rientrare in famiglia, a Bovalino, percorrendo la strada provinciale, quando, subito dopo l’abitato di San Luca, la sua autovettura fu bersagliata da decine di colpi di fucile a pallettoni ad opera di un gruppo di almeno cinque persone. Nonostante fosse ferito gravemente, trovò la forza di difendersi estraendo l’arma d’ordinanza e rispondendo al fuoco della ‘ndrangheta, riuscendo a colpire uno dei killer.

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Proprio il giorno prima dell’agguato, il 5 febbraio del 1985, Carmine Tripodi aveva accompagnato il giudice istruttore di Napoli, Guglielmo Palmeri, in un’ispezione dei luoghi dove l’ingegnere Carlo De Feo, liberato dai sequestratori nel febbraio del 1984 dietro pagamento di circa quattro miliardi di lire, fu detenuto, fornendo un supporto investigativo essenziale. Un colpo durissimo per la ‘ndrangheta, che riuscì ad individuare la ‘gola profonda’ interna che indirizzò i Carabinieri negli ovili di prigionia di De Feo: si trattava di un pastore, Giuseppe Giorgi, che verrà anche lui assassinato per avere riferito alla madre del progetto di assassinare il brigadiere Tripodi, facendo anche i nomi ai carabinieri.
Giuseppe Giorgi non era ritenuto dagli inquirenti, nonostante il cognome, membro di ‘famiglie’ di ‘ndrangheta potenti. E così, la sua condanna a morte fu decisa dai capibastone della ‘ndrangheta aspromontana ed eseguita la notte di Capodanno del 1985, mentre a San Luca in Aspromonte crepitavano i colpi di arma da fuoco per festeggiare il nuovo anno: Giuseppe Giorgi fu colpito mortalmente alla testa da un colpo di pistola. Le successive indagini della Procura della Repubblica di Locri sugli omicidi del brigadiere Carmine Tripodi e del giovane pastore, si conclusero senza condanne. Adesso la Procura distrettuale di Reggio Calabria potrebbe aprire scenari nuovi.

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