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martedì, 17 Dicembre, 2024
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Omicidio Lorena Quaranta, Cassazione mette a rischio ergastolo per il calabrese Antonio De Pace

Bisogna valutare l’incidenza della pandemia. Con questa motivazione la Corte di Cassazione ha rimandato alla Corte d’assise d’appello di Messina il caso di Antonio De Pace, (nativo di Dasà nel Vibonese) l’infermiere che strangolò la sua ragazza, Lorena Quaranta, studentessa di Medicina originaria dell’agrigentino, nella villetta di Furci Siculo la notte del 31 marzo 2020. Secondo la Cassazione i giudici avrebbero dovuto verificare meglio se “la specificità del contesto possa, ed in quale misura, ascriversi all’imputato” per “non avere efficacemente tentato di contrastare” lo stato di angoscia del quale era preda” o se “la fonte del disagio, evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica, con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi, anche dei protagonisti della vicenda, e, ancor più, la contingente difficoltà di porvi rimedio, costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale”.

Lo stress da Covid rivendicato dunque dalla difesa del giovane potrebbe rappresentare quell’attenuante che gli era stata dunque negata dalla Corte d’Assise a cui la Cassazione rimanda, limitatamente all’applicabilità delle attenuanti generiche che, se riconosciute, annullerebbero di fatto l’ergastolo. Sostanzialmente nella sentenza si fa riferimento alla componente ansiosa di cui era portatore De Pace, difeso dai legali Bruno Ganino e Salvatore Silvestro, amplificata in quel periodo dalla pandemia. Un atteggiamento psicologico che secondo i giudici potrebbe incidere sulla valutazione del trattamento sanzionatorio, soprattutto se ha provato a porvi rimedio come dimostra anche il fatto che “agitato e psicologicamente frastornato, si risolse, la mattina del 30 marzo 2020, ad allontanarsi dall’abitazione” che condivideva con la vittima per raggiungere la famiglia di origine. “Iniziativa – scrivono i magistrati – che, nelle contingenti condizioni connesse all’emergenza pandemica ed alle restrizioni ai movimenti imposte, nell’interesse della salute pubblica, da provvedimenti cogenti dell’autorità, si palesava velleitaria quanto priva, in concreto, di praticabili opzioni alternative”.

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La difesa invece eccepisce che il diniego delle circostanze attenuanti generiche non tiene conto della condizione di profonda agitazione ed angoscia nella quale egli ha agito ed è frutto dell’estrapolazione di frammenti di fatto che, nell’insieme, offrono una lettura distorta della dinamica. Segnala, in particolare, che la ricostruzione operata, dalla Corte di assise di appello poggia sul fallace postulato secondo cui il delitto sarebbe avvenuto al culmine di una lite “furibonda”, in palese contrasto con le dichiarazioni della vicina di casa che udì voci e rumori. Evidenzia anche che i giudici di merito hanno erroneamente ipotizzato che De Pace, “lungi dall’essere guidato dal terrore di essere contaminato dalla fidanzata, che egli supponeva affetta da Covid-19, o dalla convinzione di essere perseguitato dai congiunti della ragazza, abbia agito perché spinto da distinte, e non accertate, pulsioni” e che sulla tragedia “ha fortemente inciso lo sconquasso psicologico che lo ha colpito ed al quale egli, in preda all’angoscia, ha provato a resistere “spingendosi al punto di attuare un piano di fuga, faticosamente rettificato nel disordinato tentativo di riassumere la contraddizione psicologica tra il vissuto – percepito reale – di persecuzione e delirio di contagio, e la restituzione di senso consegnatagli da parenti e vittima stessa”.

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