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venerdì, 18 Ottobre, 2024
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Consulta: il convivente di fatto è “famiglia”, i diritti vanno riconosciuti a tutti senza distinzioni

Il convivente di fatto è a tutti gli effetti un familiare. «In una società profondamente mutata, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa nazionale, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto». Con queste motivazioni la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare – oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo – anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto». Inoltre, in via consequenziale, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della cosiddetta legge Cirinnà (la numero 76 del 2016) che ha introdotto l’articolo 230-ter del codice civile, che riconosceva al convivente di fatto una tutela sul lavoro significativamente ridotta rispetto al coniuge. Cioè, più garanzie lavorative per il convivente.

La sentenza
Per «conviventi di fatto» – secondo la definizione prevista dal primo articolo della legge dichiarata incostituzionale – si intendono «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale».
Le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, ricorda la Consulta, avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’impresa familiare – in riferimento, in particolare, agli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione, che garantiscono i diritti al singolo e tutelano il lavoro, nella parte in cui prevedeva che il convivente more uxorio non fosse incluso nel novero dei «familiari». E ora la Corte ha accolto quei rilievi in ambito familiare-lavorativo.

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Tenuta delle Grazie 13_6_2024

Tutela del lavoro
«Rimangono – si legge nella nota della Corte – le differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, ma quando si tratta di diritti fondamentali, questi devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni. Tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione; diritto che, nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela, versando anche il convivente di fatto, come il coniuge, nella stessa situazione in cui la prestazione lavorativa deve essere protetta, rischiando altrimenti di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito».
La Corte, inoltre, ha sottolineato che la tutela del lavoro è strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare. Ha ritenuto, quindi, irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare.

Legge Cirinnà
All’ampliamento della tutela disposta con la modifica dell’articolo 230 bis del codice civile al convivente di fatto è conseguita l’illegittimità costituzionale anche dell’articolo 230-ter che – nell’attribuire allo stesso una tutela ridotta, non comprensiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare – comporta, per i giudici un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione. La cosiddetta legge Cirinnà aveva infatti previsto che al convivente di fatto, che prestasse stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente, spettasse una partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Ma che il diritto di partecipazione non spettasse qualora tra i conviventi esistesse un rapporto di società o di lavoro subordinato.

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