di Claudio Cavaliere
L’emozione era evidente. Ha colpito pure me che fino a qualche minuto prima ero completamente ignaro di ciò che andava accadendo.
Assistevo ad un fatto rigorosamente privato. Ma quando ho avuto chiaro il senso della manifestazione, qualcosa che andava molto al di là delle singole persone, qualcosa che coinvolgeva comunità, territori, le vicende di una intera regione che fa sempre fatica a regolare i conti col suo passato, la consapevolezza di essere stato testimone di un evento storico si è manifestata fisicamente come una scarica elettrica.
Il luogo è Guardia Piemontese, l’isola linguistica occitana di tutto il meridione. La data dell’evento è il 5 giugno. Le sedie sono sistemate a circolo in una piazza che già nei toponomi mostra la fine sintonia con la tragedia dei valdesi calabresi, una tragedia che si è cercato di eradicare dalla memoria collettiva e che quei nomi richiamano come una frustata: Piazza della strage con alle spalle la Porta del sangue.
Tutto riporta a 460 anni fa, a quel 5 giugno 1561 in cui un fanatico esclusivismo teologico, un inflessibile patto politico-religioso stipulato con un presunto Dio di parte, giustificava azioni di ogni tipo contro minacce vere o presunte, contro critici che diventavano per questo nemici da sgozzare e bruciare.
Una cinquantina le persone che partecipano a quello che scopro essere il culto per l’ammissione alla Chiesa valdese. Due le persone ammesse, una giovane madre e un giovane professionista entrambi del luogo, guardioli.
Erano 460 anni che nessuno più nel paese professava la fede riformata valdese.
Non lo sapevo, lo scopro dalle lettere che i due nuovi ammessi leggono con partecipazione emotiva segno di un lungo travaglio.
La partecipazione attiva al paese in cui vivono non è in discussione, si capisce. Ma proprio per questo motivo il loro difficile atteggiamento di instancabile attenzione per le mancanze, per i ritardi della loro comunità non li hanno posti in una posizione a parte.
Certo, è un fatto privato l’adesione ad una fede. Ma mi domando, assistendo, quanto è difficile oggi sottrarsi a quella sorta di forma di lealtà comunitaria che va dall’essere cittadino di un piccolo borgo a partecipe dei social che a volte significa conformismo, paura di essere giudicati.
Ne è risultato quello che Judith Shklar, in un altro contesto, ha chiamato il “liberalismo della paura”: la difesa senza compromessi della ragione e della moderazione che nasce dall’esperienza di prima mano delle conseguenze degli eccessi ideologici, la sempre presente consapevolezza della possibilità della catastrofe.
È il sentimento di paura, il timore che confonde gli individui e impedisce loro di compiere scelte libere e consapevoli, il nodo centrale della teoria politica di Shklar.
Qui invece c’è il sogno di un paese normale in cui la propria fede non ha a che fare con una verità che è già stata scritta una volta per tutte in cui non c’è più niente da capire, non servono domande e non ci saranno risposte, perché basta adattare il Credo a ogni nuova situazione.
C’è invece una bella storia di diversità, non idolatrata come obiettivo in se, ma di una diversità assicurabile solo attraverso la preservanza di tutte le identità.
E questa è una lezione che soprattutto oggi occorre sperare di non dover reimparare.