E’ un’esperienza visiva e sensoriale potentissima, “Il buco” di Michelangelo Frammartino. Dopo il gran premio della giuria a Venezia, la fama respingente di opera poco masticabile pro cinefili ostinati e l’avvertenza di trovarsi ad affrontare novanta minuti e passa di immagini prevalentemente avvolte nell’oscurità, senza dialoghi né musiche, ha preceduto il film nel suo arrivo in sala. Invece poi la visione è un’emozionante sorpresa, come già sanno i conoscitori del cinema del regista di Caulonia – ma lo scopriranno anche i neofiti diffidenti. Perché della circostanza che qui gli unici suoni siano i richiami gutturali dei pastori alle capre, i duri tonfi delle pietre, il crepitare del fuoco e le correnti di acqua e venti, non ci si accorge mai per l’intera durata del film. Importa poco quando subito si viene assorbiti, rapiti, dalla bellezza – e sarebbe persino banale la considerazione che un film come questo può essere visto soltanto sul grande schermo.
Con una poetica che ricorda il cinema di Kiarostami, “Il buco” è trionfo incondizionato del paesaggio, di un territorio ritratto nelle sue pieghe più intime per immortalarne l’anima – che è, soprattutto, anima della Calabria come emblema di un Sud ancestrale ed eterno. Per questo Michelangelo Frammartino sceglie di raccontare una storia straordinaria eppure all’epoca quasi ignorata dai media, la spedizione dei giovani speleologi piemontesi in fondo all’Abisso del Bifurto, nel cuore del Pollino, la grotta sotterranea più profonda del Meridione. Era il 1961 e l’attenzione di tv e giornali era tutta per le narrazioni del boom economico. Il popolare testimonial Mike Bongiorno che sale in cima al nuovissimo Pirellone facendo vedere in diretta ai telespettatori l’ascesa tra le grandi vetrate degli uffici, salutando gli impiegati sorridenti alle loro scrivanie, avvenenti come divi di celluloide, che rappresentano l’Italia del benessere, che lavorava, produceva e trainava lo sviluppo del paese.
Negli stessi giorni, un gruppo di ardimentosi sognatori in tuta, caschetto e scarponi viaggiavano verso la punta estrema del Sud, incontaminato e selvaggio, tentando l’impresa della loro vita: penetrare il segreto della terra e uscirne mutati, forse insensatamente eroici o forse depositari di un’anelata verità sulla natura e se stessi. Altro che 4D, se volete scoprire cosa si prova a scendere a 700 metri nelle viscere della terra, guardate questo film. L’idea di Frammartino era proprio questa, far rivivere le stesse sensazioni di quell’impresa durissima ed esaltante. Per ottenere questo risultato “immersivo” servivano il buio e il silenzio, serviva una cronaca di sforzo fisico, sudore, resistenza, senza orpelli superflui.
Il film in realtà si svolge su due piani paralleli, con il punto di congiunzione della perfetta verticalità della discesa – verticalità all’esatto opposto di quella lustra e abbagliante del Pirellone. Due piani, dunque. La grotta, immersa nel buio, è un enigmatico spazio di passione, frenesia, desiderio e insieme ansia dell’ignoto; la montagna è atavica, stabile – questa Calabria non è da cartolina, il regista indaga siti anonimi, essenziali e ripetitivi, riempiti della pienezza di una precisa identità: rocce, colline, ruscelli e borghi antichi, fungibili da baricentro di equilibrio attorno a quel dirupo aperto come una gigantesca bocca. Il buco potrebbe essere la tana del Bianconiglio e gli speleologi curiosi emuli di Alice, testardi esploratori di misteri. La vallata carsica, in superficie, è il rassicurante alveo del ritorno, è casa.
L’umanità di questo film è nell’alleanza tra gli speleologi e i pastori – che qui diremmo essere “una faccia, una razza”, citando un’altra celebre pellicola. Dai tempi di “Le quattro volte”, Frammartino ha un feeling istintivo con i pastori, è affascinato dal loro rapporto disinteressato con il territorio, che somiglia molto a quello degli speleologi (anche loro non vanno in cerca di siti turistici ma sono attratti da geografie brade e senza certezze, da luoghi che non danno garanzie). Identica è anche la loro fusione con l’ambiente, che il regista sottolinea con immagini pittoriche costruite su dettagli minimalisti: il viso solcato di rughe dell’anziano Zi’ Nicola, roccioso come la montagna stessa; i ragazzi piemontesi esausti che dormono dentro la chiesa, stesi accanto a statue di Cristi risorti, martiri e santi.
Mentre la vita scorre incalzata dalla morte, il fondo dell’Abisso arriva all’improvviso, con oggettiva definitività, cancellando la tensione della lunga lotta di avvicinamenti a vuoto. Gli speleologi fissano nella memoria l’origine del buco con reverenziale soggezione, finalmente rasserenati, mentre fuori la nebbia avvolge tutto in un bianco assoluto, inghiottendo ogni rivelazione mai raggiunta dall’uomo.
Isabella Marchiolo