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domenica, 22 Dicembre, 2024
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Calabria – Le opere incompiute diventano opere d’arte

Pontili nel nulla, industrie mai aperte, città abbandonate. È lungo l’elenco delle infrastrutture lasciate a metà raccontate su l'”Espresso di Repubblica”.

Il “non finito calabrese” diventa uno stile artistico, studiato alle università, fotografato ed esposto nelle mostre dei festival, teorizzato da filosofi, antropologi e accademici. «Hegel diceva di specchiarsi davanti alle opere d’arte, di riflettere», spiega Angela Sposato, studiosa di estetica, esperienza percettiva e linguaggio. «In questo senso, le opere d’arte sono il nostro specchio, sono speculari a noi. Altri le possono vedere come brutture, inorridiscono di fronte al non finito. A noi calabresi piacciono perché noi siamo il riflesso di queste opere. Noi infatti abbiamo un modo sudamericano di vivere, lento e procrastinatore. Wittgenstein ha elaborato il suo concetto con una semplice frase: non pensare, guarda. Noi cerchiamo di applicare questo concetto a quelli che possiamo chiamare fatti estetici».

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Il “non finito calabrese”, così come è stata chiamata questa onda artistica, non riguarda però soltanto le opere pubbliche mai terminate, dal porto di Gioia Tauro al pontile ex Sir di Lamezia Terme, ma riguarda il campo delle abitazioni pubbliche, dai piccoli paesini alle grandi città, dell’Aspromonte a Tropea, fino a Gimigliano, sulla Sila, dove doveva sorgere la diga più grande d’Europa che doveva servire tutte le cittadine da Catanzaro a Lamezia: mai terminata. «Fabbricando case assicuri un avvenire ai tuoi figli con amore», cantava il crotonese Rino Gaetano, ma nel piccolo paese a pochi chilometri dalla terra arida dell’emigrante, quei figli non sono mai tornati e le case costruite con le rimesse sono rimaste senza prospetto, o mai terminate, con i ferri arrugginiti che puntano al cielo, come a pregare per un completamento che non avverrà mai.

«L’incompiuto fa parte della dimensione culturale calabrese», spiega l’architetto e docente di Photography e visual design alla Naba Milano Antonio Ottomanelli, che ha portato la storia del non finito alla biennale di Venezia. «I calabresi sono figli di quella emigrazione e vivono sulla soglia di un disastro imminente, come se da un momento all’altro dovesse arrivare un’alluvione o un terremoto, oppure dovessero emigrare per lavoro. Per questo motivo non completano le abitazioni. È un atteggiamento che fuori dalla Calabria può sembrare sciatto, disinteressato, in estremo anche criminale, in realtà nel non finito si consuma il rapporto del conflitto di un popolo con una terra ostile, come raccontano i paesi sulla 106, la strada che si affaccia sullo Jonio e collega la Calabria alla Puglia».

Tra i paesi toccati da questa strada c’è anche  Roseto Capo Spulico, in provincia di Cosenza, dove si trova uno dei simboli della regione seconda in Italia (dopo la Sicilia) per numero di opere incompiute: una scala mobile in mezzo al nulla, celebrata anche dal New York Times. Quello che doveva essere un centro commerciale, secondo le intenzioni, non è mai stato fatto, ma quella scala mobile che sale verso il cielo è ferma lì ormai, come attrazione turistica, o come emblema dell’eterna attesa tutta calabrese. «Non sono luoghi orrendi», spiega ancora Angela Sposato. «Sono luoghi di drammaturgia, che rappresentano l’attesa di un avvento che non ci sarà mai. Altri li vedono come mostri, noi calabresi siamo assuefatti, per noi è il simbolo di un desiderio che non si avvererà mai. Rappresentano il simbolo e il linguaggio della Calabria, sono il simbolo della nostra terra, anche gli acquedotti romani un tempo venivano demonizzati, poi sono stati apprezzati. Allo stesso modo per me quelle che oggi sono presenti in Calabria sono delle opere d’arte, perché sono il simbolo della nostra terra, delle opere d’arte contemporanea involontaria, in tutta la loro bellezza».

L’assuefazione è ormai una costante per delle opere che assumono un significato diverso dalla loro origine, come il pontile ex Sir, Società italiane resine, nato a Lamezia Terme, oggi usato dai pescatori per ripararsi dal sole durante le giornate di pesca: un gigante di ferro ormai usurato e decadente, insabbiato in un mare limpido, cui gli abitanti di Lamezia non fanno più caso. Nato per una azienda che doveva portare lavoro a più di duemila persone, oggi giace lì, senza alcun significato apparente, se non quello trovato, appunto, di opera d’arte. «Queste grandi rovine contemporanee sono simbolo dello stravolgimento del paesaggio operato sia dal pubblico che dal privato», spiega Ottavio Amaro, professore dell’Università di Reggio Calabria, che da tempo con altri docenti porta avanti la ricerca sul riuso delle incompiute: «Sono il simbolo di una industrializzazione fallita, oggi opere senza idee e senza servizi, rimaste grandi contenitori non previsti nei piani delle popolazioni. Da qualche anno abbiamo assunto un atteggiamento disincantato attraverso un cambiamento del pensiero estetico, che sta in mezzo ai due concetti finora pensati, quello del completamento e quello della demolizione. Non sono brutture ma opere che devono essere ripensate», continua, «come se venissero modificate in post-produzione, bisogna ripensarne i canoni estetici, facendoli diventare un valore, bisogna disabitare questi luoghi dai loro progetti d’origine per avviare una metamorfosi che li trasformi».

Una nuova vita per quei luoghi che dovevano rappresentare il futuro e che ora rimangono una macchia indelebile nel cuore della Calabria. Degli investimenti fatti con il cosiddetto “Pacchetto Colombo”, volti a far rinascere e a placare la terra dei “Moti di Reggio” negli anni Settanta, non rimangono che colossi giganti di metallo e ferro, con il Porto di Gioia Tauro che cancellò letteralmente le città per l’innovazione, sradicando i suoi cittadini per portarli in altri paesi costruiti appositamente, senz’anima e senza storia.

Di quei duemila miliardi di lire finanziati, oggi rimane poco: progetti mai terminati, già programmati per non essere conclusi, come il caso della Liquichimica di Saline Joniche, che ha sventrato una spiaggia per essere chiuso 48 ore dopo l’inaugurazione, dopo aver assunto 550 dipendenti (per sempre in cassa integrazione) che dovevano produrre una sostanza per mangime per gli animali poi scopertasi cancerogena. «Doveva essere il polo siderurgico più grande del Meridione ma si è rivelato uno spreco di grandi proporzioni», spiega ancora Antonio Ottomanelli. «Fu un fiume di soldi che non portò a nulla se non a costruire delle cattedrali nel deserto, che hanno distrutto ulivi, coltivazioni, intere città, lasciando grosse cicatrici in posti suggestivi».

Quello che rimane è un ammasso di “mostri”, anche se i cittadini che hanno visto violentare questa terra, dopo l’assuefazione, hanno riconsiderato questi sfregi sul volto della verde Calabria: «Oggi sono dei monumenti e noi subiamo il fascino di queste grandi opere, bisogna immaginarli con una nuova definizione, un mondo nuovo», aggiunge Ottomanelli. «Non ha senso demolirle, né terminarle, bisogna ripensarle». La ‘ndrangheta, intanto, negli anni, ha messo le mani anche su questi lavori, prendendo appalti di opere mai terminate, un film che nel corso del tempo ha visto tanti remake della stessa storia, in una terra che non riesce a riprendersi il territorio. «Abbiamo odiato quelle opere e le abbiamo criticate», spiega Ottomanelli. «Ma questa terra è cambiata con una nuova coscienza che ha portato anche a un diverso approccio con le opere abbandonate della Salerno-Reggio Calabria, che oggi rappresentano pezzi di ricchezza ormai perduti, lavori di grande ingegneria».

L’assuefazione e la rassegnazione lasciano il posto a un nuovo concetto artistico, già proiettato e diffuso grazie alle fotografie di Angelo Maggio, che ha saputo cogliere l’aspetto più profondo della Calabria attraverso le immagini della normale vita dei cittadini della punta dello Stivale, tra case mai terminate e grandi infrastrutture incompiute. Simbolo degli affari poco trasparenti degli anni Settanta e Ottanta, subiti dalla popolazione e imposti dall’alto sotto forma di aiuto, poi trasformatosi in condanna. Nessuno ha pagato per questo profondo sfregio, e pure il luogo deputato alla giustizia, il grande tribunale di Reggio Calabria, mai ultimato, rimane l’ennesima incompiuta. (Fonte: L’Espresso)

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