L’emergenza derivante dalla diffusione del coronavirus ha portato il Governo nazionale all’adozione di provvedimenti di estrema gravità che, come suggerito dal Comitato scientifico, possono dimostrarsi utili in un arco di tempo ristretto a limitare il contagio.
Sono tutti ragionevoli e condivisibili in questa situazione. Anche se incidono molto sulle nostre abitudini di vita. Dobbiamo rinunciare ad un pezzo della nostra “libertà” per garantire la sicurezza nostra, dei nostri cari e di tutti.
L’unico appunto che si può muovere, però, riguarda uno dei fenomeni sociali che, in casi di emergenza come questi, si verificano: lo spostamento quasi incontrollato delle persone in altre aree ritenute “più sicure”.
E’ successo anche stavolta e sta continuando a succedere. Migliaia e migliaia di calabresi, sappiamo bene purtroppo, sono stati costretti a recarsi al Nord per trovare lavoro, soprattutto in quelle regioni che oggi vivono l’emergenza coronavirus.
La chiusura di fabbriche, scuole, università, attività produttive e commerciali ha comportato, come conseguenza diretta ed immediata, il loro ritorno in massa nella nostra regione.
Sappiamo bene tutti che le disposizioni nazionali e quelle sanitarie impongono a chi rientra dalle “zone rosse” di mettere in pratica comportamenti che evitino al massimo il rischio di contagio, come sappiamo tutti, che chi rientra proprio da quelle zone deve porsi in autoisolamento e solo se manifesta sintomi deve contattare i presìdi medici locali.
In tanti lo hanno fatto con grande senso di responsabilità. Basta gaurdare come i pronto soccorso dei nostri ospedali o come gli studi dei medici di famiglia siano diventati meno affollati o i commenti sui vari social di calabresi che hanno deciso di non tornare.
Dispiace dover sottolineare, però, che tanti altri non abbiano dimostrato il doveroso senso di responsabilità. Succede anche questo, è prevedibile, non si può bloccare la libera circolazione sul territorio nazionale dei cittadini.
Non tutti hanno la “sensibilità” necessaria di comprendere che, quando si tratta di “combattere” con nemici invisibili e pericolosi come i virus, non si possono costruire muri, non si può arrestare nessuno, non si può delegare ad altri la “battaglia”.
Il primo e più efficace presidio sanitario contro la diffusione dei contagi siamo noi. Il nostro corretto comportamento fa la differenza.
Anche per questa ragione è comprensibile l’appello che arriva da studiosi e istituzioni a non esporsi e non esporre gli altri a rischi. La Calabria, in aggiunta, presenta un’ulteriore situazione di difficoltà: un sistema sanitario pubblico (dopo anni di tagli e un decennio di commisariamento) che non potrebbe rispondere ad un aumento esponenziale del contagio.
Allora c’è una sola cosa che si deve fare: evitare di tornare in Calabria fino a quando le condizioni non consentiranno di farlo in sicurezza.
E’ un altro (l’ennesimo) sacrificio che si chiede. I calabresi sono abituati a fare sacrifici, sappiamo che non si tirano indietro. E lo dimostreranno anche in questo delicato frangente.
Maurizio De Fazio