L’obbligo del vaccino anti-covid per i sanitari non è né irragionevole né sproporzionato. Quanto alla sospensione, è inammissibile la questione di legittimità costituzionale. E’ quanto ha stabilito la sentenza della Corte costituzionale n.15 del 2023 (redattore Stefano Petitti) depositata oggi, anticipata con comunicato stampa l’1 dicembre 2022. In risposta alle questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali ordinari di Brescia, di Catania e di Padova, la Corte ha affermato che la normativa censurata ha operato un contemperamento non irragionevole del diritto alla libertà di cura del singolo con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività, in una situazione in cui era necessario assumere iniziative che consentissero di porre le strutture sanitarie al riparo dal rischio di non poter svolgere la propria insostituibile funzione. Il sacrificio imposto agli operatori sanitari non ha ecceduto quanto indispensabile per il raggiungimento degli scopi pubblici di riduzione della circolazione del virus, ed è stato costantemente modulato in base all’andamento della situazione sanitaria, peraltro rivelandosi idoneo a questi stessi fini. La mancata osservanza dell’obbligo vaccinale ha riversato i suoi effetti sul piano degli obblighi e dei diritti nascenti dal contratto di lavoro, determinando la temporanea impossibilità per il dipendente di svolgere mansioni implicanti contatti interpersonali o che comportassero, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio. La sentenza ha ritenuto non contraria ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza anche la scelta legislativa di non prevedere, per i lavoratori del settore sanitario che avessero deciso di non vaccinarsi, un obbligo del datore di lavoro di assegnazione a mansioni diverse, a differenza di quanto invece stabilito per coloro che non potessero essere sottoposti a vaccinazione per motivi di salute o per il personale docente ed educativo della scuola. La Corte ha considerato tale scelta giustificata dal maggior rischio di contagio, sia per sé stessi che per la collettività, correlato all’esercizio delle professioni sanitarie.
La sentenza, infine, ha deciso che quanto previsto dalle norme censurate – secondo cui al lavoratore che avesse scelto di non sottoporsi alla vaccinazione non erano dovuti, nel periodo di sospensione, la retribuzione né altro compenso o emolumento – ha giustificato anche la non erogazione al dipendente sospeso di un assegno alimentare in misura non superiore alla metà dello stipendio. La Corte, infatti, ha ritenuto non comparabile la posizione del lavoratore che non ha inteso vaccinarsi con quella del lavoratore del quale sia stata disposta la sospensione dal servizio a seguito della sottoposizione a procedimento penale o disciplinare, casi questi ultimi in cui l’assegno alimentare può essere erogato. In particolare, la Corte ha escluso che fosse costituzionalmente obbligata la soluzione di porre a carico del datore di lavoro l’erogazione solidaristica di una provvidenza di natura assistenziale in favore del lavoratore che non avesse inteso vaccinarsi e che fosse, perciò, temporaneamente inidoneo allo svolgimento della propria attività lavorativa. In continuità con la propria giurisprudenza in materia di trattamenti sanitari obbligatori, la Corte ha ribadito innanzitutto che l’articolo 32 della Costituzione affida al legislatore il compito di bilanciare, alla luce del principio di solidarietà, il diritto dell’individuo all’autodeterminazione rispetto alla propria salute con il coesistente diritto alla salute degli altri e quindi con l’interesse della collettività. In applicazione di questi principi, la Corte ha giudicato non fondati i dubbi di costituzionalità prospettati dal giudice rimettente: di fronte alla situazione epidemiologica in atto, infatti, il legislatore ha tenuto conto dei dati forniti dalle autorità scientifico-sanitarie, nazionali e sovranazionali, istituzionalmente preposte al settore, quanto a efficacia e sicurezza dei vaccini; e, sulla base di questi dati scientificamente attendibili, ha operato una scelta che non appare inidonea allo scopo, né irragionevole o sproporzionata. Come emerge dall’analisi comparata, del resto, misure simili sono state adottate anche in altri Paesi europei.
Nella sua pronuncia, in particolare, la Corte ha chiarito – sempre in linea con la propria giurisprudenza – che il rischio remoto, non eliminabile, che si possano verificare eventi avversi anche gravi sulla salute del singolo, non rende di per sé costituzionalmente illegittima la previsione di un trattamento sanitario obbligatorio, ma costituisce semmai titolo all’indennizzo. “Non può, pertanto, condividersi – si legge nella motivazione della sentenza -– la lettura che il Collegio rimettente dà della giurisprudenza di questa Corte, la quale ha, per contro, affermato che devono ritenersi leciti i trattamenti sanitari, e tra questi le vaccinazioni obbligatorie, che, al fine di tutelare la salute collettiva, possano comportare il rischio di ‘conseguenze indesiderate, pregiudizievoli oltre il limite del normalmente tollerabile’ (sentenza numero 118 del 1996)”. Quanto, infine, alla censura di contraddittorietà di una disciplina che impone il consenso a fronte di un obbligo vaccinale, la Corte ha rilevato che “l’obbligatorietà del vaccino lascia comunque al singolo la possibilità di scegliere se adempiere o sottrarsi all’obbligo, assumendosi responsabilmente, in questo secondo caso, le conseguenze previste dalla legge”. “Qualora, invece, il singolo – continua la sentenza – adempia all’obbligo vaccinale, il consenso, pur a fronte dell’obbligo, è rivolto, proprio nel rispetto dell’intangibilità della persona, ad autorizzare la materiale inoculazione del vaccino”.
Il Tar Lombardia, chiamato a decidere un ricorso di una psicologa che, a causa dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale, era stata sospesa dall’esercizio della professione, aveva dubitato della legittimità costituzionale della citata norma, ritenendola in contrasto con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, di cui all’articolo 3 della Costituzione. In caso di omessa vaccinazione, infatti, la disposizione censurata estenderebbe irragionevolmente il divieto di svolgere la professione sanitaria a tutte le attività che richiedono l’iscrizione ad albi professionali, anche se dette attività non comportano alcun rischio di diffusione del Covid-19, potendo essere svolte da remoto, mediante l’utilizzo di strumenti telematici e telefonici. Le questioni sono state dichiarate inammissibili in ragione di un preliminare profilo processuale, che ha escluso una valutazione nel merito delle stesse: il difetto di giurisdizione del tribunale amministrativo regionale che le ha sollevate. Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione – che è l’unico giudice competente a decidere sulla giurisdizione – appartiene alla cognizione del giudice ordinario la controversia in cui viene in rilievo un diritto soggettivo – nel caso, quello ad esercitare la professione sanitaria – non intermediato dall’esercizio del potere amministrativo. La sospensione dall’esercizio della professione sanitaria discende automaticamente dall’accertato inadempimento dell’obbligo vaccinale, imposto come requisito essenziale dalla legge. La competenza sulle relative controversie è, dunque, del giudice ordinario, non di quello amministrativo.
(Adnkronos)