Con una lunga intervista al Corriere della Sera, Gennaro Gattuso ha respinto le accuse degli ultimi giorni nei suoi confronti. Alcuni tifosi del Valencia, infatti, sulla falsa riga di ciò che avevano fatto la scorsa stagione i tifosi del Totthenam, si sono opposti al possibile approdo del tecnico calabrese sulla panchina della loro squadra del cuore, etichettandolo come un uomo omofobo e razzista.
Alle accuse, risponde così: “Sono molto diverso da come vengo descritto da dodici mesi a questa parte. Si prendono dichiarazioni di anni diversi, le si isola dal contesto e si imbastiscono processi con l’obiettivo di delegittimare una persona, una vita. I tribunali sono cose serie: qualcuno accusa, qualcuno difende, qualcuno giudica. Qui il patibolo tecnologico si abbatte e definisce sentenze senza possibilità di appello. Io non sono un tipo da social. Se mi chiamano Ringhio, ci sarà un motivo. Non vado a caccia di facili consensi, non faccio il simpatico a comando. Sono uno che lavora, che ha sempre lavorato, che ha faticato tanto e che è grato alla vita per quello che gli ha dato. Quando sento dire che sono razzista mi sembra di impazzire. Nessuna persona, mai, può essere giudicata per il colore della pelle. Conosco tanti con la pelle bianca che non si comportano bene. Il razzismo va combattuto, sempre. Ho allenato decine di giocatori che avevano la pelle diversa dalla mia, nel mio ristorante ne lavorano tre, ho avuto compagni di squadra ai quali ho voluto bene. Per me non conta il colore della pelle, conta la persona. La sua onestà, la sua lealtà”.
È la prima volta che parla da molto tempo. Lo fa senza rabbia, con tristezza e, soprattutto, con la sorpresa di vedersi descritto in maniera così negativa e come non è. “Nasco in un paese di pescatori, Corigliano Calabro. I miei erano falegnami. Io ho lasciato casa – dice il mister – a dodici anni per fare quello che mi piaceva e che sentivo di saper fare: giocare al calcio. Sono andato a Perugia, da solo. Ho patito tanto, ma in silenzio. Ero piccolo però sapevo che la scelta era quella giusta. Mio padre ha avuto grande coraggio e tanta fiducia in me. Per questo l’ho sempre amato tanto. Mia madre ha pianto molto e mi dispiaceva. Ho vestito più di settanta volte la maglia della nazionale. Ogni volta che sentivo l’inno di Mameli, anche prima della finale di Berlino, pensavo a quando lei mi urlava di tornare a casa perché stavo, bambino, a giocare sulla spiaggia per otto o dieci ore. Mio padre è andato a lavorare in Germania per un anno e mezzo. Un quarto della mia famiglia – conclude – è sparso nel mondo, tutti sono andati a cercare quella fortuna che la Calabria non gli aveva concesso. Come diavolo potrei essere razzista?“