Sempre più numerose le persone che decidono di lasciare il proprio lavoro. Le ragioni? Sono le più svariate. In realtà – sottolinea Sebastiano Guzzi, Vice Presidente Nazionale di Unilavoro Pmi – si tratta di un fenomeno globale in costante crescita, ribattezzato negli Stati Uniti come “Great Resignation”, che sta prendendo piede ovunque, e anche in Italia. Come gli inglesi, anche gli italiani sarebbero interessati a sperimentare nuove forme di flessibilità oraria sul posto di lavoro.
Quasi un terzo dei lavoratori italiani vorrebbe una settimana lavorativa di quattro giorni, al posto di quella tradizionale. Lo rivela il Randstad Workmonitor, l’indagine realizzata da Randstad in 34 Paesi del mondo, che ha intervistato 1000 lavoratori dipendenti di età compresa tra 18 e 67 anni in Italia (35mila a livello globale) sulle ultime tendenze del lavoro. Secondo questa importantissima ricerca, ben il 29% dei dipendenti in Italia preferirebbe la settimana corta. Il 9% invece vorrebbe lavorare in orari tradizionali, ma in giorni diversi della normale settimana lavorativa. Il 14% in turni divisi, alla mattina presto e alla sera tardi. Il 6% vorrebbe lavorare di notte. Meno di un lavoratore italiano su due, invece, il 43%, preferisce l’opzione di giorni e orari tradizionali. A prediligere la settimana corta, come emerge dall’indagine effettuata, sono più gli impiegati (favorevoli nel 32% dei casi), degli operai (15%). Di certo, si legge, la stragrande maggioranza dei lavoratori italiani, l’83%, considera rilevante la flessibilità di orario. Con il termine flessibilità, in ambito professionale, spiega Guzzi, si fa riferimento a rapporti di lavoro alternativi alle forme tradizionali che prevedono orari standard e sedi fisse. Una modalità di lavoro agevole e sempre più favorita, semplificata dalla costante innovazione digitale, che consente di beneficiare di forme di lavoro come lo smart working e l’e-working.
La flessibilità, di fatto, può rivelarsi un vantaggio sia per i dipendenti, che possono conciliare meglio gli impegni personali con quelli lavorativi, sia per le aziende che potrebbero trarne benefici. Una soluzione ottimale che favorisce miglioramenti sotto tutti i punti di vista. Ciò non significa comunque, evidenzia Guzzi, che siano tutti concordi in queste scelte. Emergono, infatti, all’interno del campione analizzato, divergenze di genere e di generazioni. Non solo. Dalla ricerca di Randstad viene fuori, inoltre, l’importanza del benessere emotivo. Il lavoro non è più solo legato alla necessità funzionale, ma deve generare benessere emotivo. Un’aspettativa ampiamente condivisa. “I lavoratori – conclude Guzzi – hanno espresso i loro disappunti e spiegato che non sono più disposti ad accettare sovraccarichi di lavoro, né disposti a lavorare in ambienti poco sani e mal organizzati. Chiedono più equilibrio tra vita privata e lavoro».