E’ stato presentato nello spazio ‘Open’ di Reggio Calabria della casa editrice ‘Città del Sole edizione’, l’ultimo libro di Giuseppe Tripodi ‘L’invenzione del ribelle – Vita tortuosa di Bruno Misefari’, cosiddetto “anarchico di Calabria” (Città del Sole edizione, Reggio Calabria, 2020, pagg. 360, € 20,00).
Se ancora non lo conoscete deliziatevi con l’affabulazione realistica di due gioielli letterari che sono ‘Cola Ierofani’ (2014) e ‘Catalogo della casa di Gianni’ (2019); immergetevi nei suoni e nei colori di ‘Straci’ (2007); gustate le biografie di ‘Ritratti in piedi del novecento calabrese’ (2017).
Tripodi è portatore di una memoria visionaria; la sua scrittura sembra uno spartito di orchestra sinfonica ricchissimo di registri, timbri, sonorità di una pluralità di linguaggi amalgamati alla perfezione; al confronto lo humour di Jerome K. Jerome sembra aria gelata di una cella frigorifera; la “calabresità” dei suoi scritti è quella della sua vita vissuta, sanguigna, sensuale, drammatica, combattente, fiera, intelligente, protagonista. Nulla che rimandi allo stereotipo che tanti disinvolti “intellettuali” hanno svenduto come condizione antropologica ineluttabile di chi nasce in Calabria.
Parlare con lui è un piacere. Lo faccio nella sua casa di Condofuri marina dove ritorna in estate da Tivoli, cittadino acquisito da quarant’anni con la moglie Maria, anch’essa grande raccontatrice. Evidentemente il dono della narrazione che affascina è un marchio di fabbrica della casa! Con accento rigorosamente condofuriotu, dove il suffisso otes, come spiega in Straci, è indice di sicura grecità.
Partiamo dal titolo. Come ti è venuto in mente “L’invenzione del ribelle?”
“All’inizio del lavoro avevo pensato a un titolo dotto che riprendesse l’immagine canonica di Bruno Misefari, del tipo ‘Il cavaliere dell’ideale’, che poi corrisponde ad una figura della Fenomenologia della Spirito di Hegel in cui si sintetizzano sia i sentimenti di bontà interiore (L’uomo del cuore) quanto le proiezioni esterne degli stessi (L’uomo della causa). Poi, quando lo scostamento da quell’immagine oleografica mi si appalesò nelle sue reali dimensioni, pensai di volgere al plurale il titolo e di aggiungere un aggettivo che attenuasse la positività attribuita fino ad allora al personaggio: Il Cavaliere degli ideali perduti. Con questo titolo siamo arrivati all’impaginazione e alle correzioni delle prime bozze. Ma il titolo provvisorio appariva lungo, anche perché avevo sempre in mente il sottotitolo esplicativo che appare in copertina. Poi mi venne in mente L’invenzione del ribelle che era il titolo di un capitolo e che riprende, in parte, una pubblicazione einaudiana molto fortunata”.
Come spieghi che la sua figura non ha finora avuto critici mentre tutti si sono adeguati alla sua leggenda?
“In realtà Misefari, al netto delle compromissioni col regime fascista che nessuno dei suoi biografi aveva finora considerato, era una figura marginale dell’anarchia italiana. Nella sintesi di Gino Cerrito sull’antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del Novecento viene menzionato non più di due o tre volte. Questo spiega il fatto che gli studiosi si siano occupati poco di lui che, invece, era stato sopravvalutato dalla moglie e dal fratello, per comprensibili ragioni familiari, oltreché dagli anarchici calabresi che hanno fatto da megafono alla leggenda sulla sua vita”.
Tu hai frequentato la casa della moglie di Misefari, quella che più di tutti ha contribuito a creare la leggenda del marito. Non hai trovato difficile mostrare un Misefari che non era un monumento?
“Pia Zanolli in realtà ha avuto svariate funzioni nella vita di Bruno Misefari: è stata ovviamente fidanzata e moglie, lo ha accompagnato alla laurea standogli vicino nella Napoli dei primi anni venti del Novecento, ha seguito la fondazione della vetreria di Pezzo e lo ha assistito nel primo semestre di confino; infine gli ha procurato il finanziamento per le attività pseudominerarie di Davoli dato che Spinner, il fornitore della provvista di circa settecentomilalire del 1933-1934, era suo amico. Lei poi ha inventato la leggenda dell’anarchico di Calabria che è il titolo del suo libro più fortunato. Io, fino a che lei è stata viva, non ho mai avuto dubbi sulla sua buonafede o sulla rettitudine politica di Bruno. Anche le vite che compaiono nelle storie e nei dizionari biografici degli anarchici sono conformi agli scritti di Pia Zanolli. È stato lo studio delle carte di archivio che mi ha portato fuori strada rispetto alla leggenda. È stato difficile, una volta scoperti gli intrecci profondi col regime fascista, superare la delusione emotiva e riprendere il lavoro per portarlo a termine. Ci sono voluti almeno quattro o cinque anni perché mi convincessi a chiudere definitivamente questa biografia”.
Come interpreti questa inautenticità?
“Per spiegare il comportamento acritico di Pia Zanolli verso la memoria del marito io sono ricorso alla categoria stendhaliana della cristallizzazione affettiva che assume la perfezione dell’amato, la oltrepassa proiettandola addirittura nell’eternità. Pia, sia pure con alti e bassi nella breve vita comune, è stata innamorata di Bruno oltre la morte; anzi ha amato di più la sua memoria che la sua persona reale. Bisognerebbe studiarne l’epistolario per scoprire meglio i segreti di questo strano amore che, forse, non fu mai consumato”.
Gli storici di professione e gli accademici non ne escono benissimo dalla tua ricostruzione. Come giudichi questa approccio superficiale sul tema da chi dovrebbe essere dotato di solidi attrezzi del mestiere?
“Sono stato allievo di Paolo Alatri, mi sono laureato con lui e il correlatore è stato Augusto Placanica, che fu scrupolosissimo nel controllo anche formale della mia tesi. Mi sconsigliava di dare alle stampe lavori non meditati e non metabolizzati adeguatamente. Tanto mi influenzarono i suoi consigli che, pur avendo pubblicato saggi su riviste anche prestigiose, il mio primo libro è stato edito a 58 anni suonati. Oggi chi scrive crede che la prefazione di un autore famoso aiuta la diffusione del suo libro mentre non è così. D’altra parte un professore universitario che viene sommerso da periodiche e reiterate richieste di questi lavori finisce magari per evaderle tutte con leggerezza. La vita di Bruno Misefari è finita nel Dizionario Biografico degli Italiani con un profilo, consultabile on-line, di Giuseppe Masi, docente di storia all’Università della Calabria. Lo scritto è corredato da un’adeguata bibliografia ma contiene diverse inesattezze e manca di una qualsiasi analisi critica rispetto ai due progetti industriali che occuparono Misefari negli ultimi dieci anni della sua vita: la vetreria di Pezzo e la cava di quarzo a Davoli; ma soprattutto, manca una qualsiasi analisi sui rapporti tra Misefari ed il regime fascista che cominciarono nel 1929 con una lettera indirizzata a Mussolini e si conclusero nel 1935, quando oramai l’ingegnere era decotto dal punto di vista imprenditoriale. Ritengo che le falle in questa biografia siano dovute ad un utilizzo parziale del quadro bibliografico che lui stesso ha fornito”.
Claudio Cavaliere
Intervista a Giuseppe Tripodi che con “L’invenzione del ribelle” svela il “vero” Bruno Misefari
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