di Agazio Loiero
La nostra regione versa in una crisi così grave – anche d’immagine – da apparire senza scampo. Per un calabrese che ama la sua terra è una vera sofferenza in questi ultimi tempi accendere la televisione o leggere i giornali. Non ci troviamo solo in presenza di quel tipo di crisi grave, testimoniata da tutti i più recenti studi, ma siamo anche demonizzati e da ultimo anche derisi. Abbiamo assunto il ruolo di attori di rilievo nei programmi d’intrattenimento, nei quali tutto, dalle antiche tare che ci accompagnano al duro accento che fuoriesce dalla nostra bocca, diventa divertente, fonte di ilarità nel Paese. “Calpesti e derisi”, per usare due aggettivi-simbolo del Risorgimento italiano.
Il peggio della società calabrese emerge con una forza dirompente nei media di questa stagione. E’ un fatto positivo che questo giornale da qualche tempo se ne preoccupi. Faccio qui un elenco non esaustivo di punti dolenti del nostro male di vivere. Gli studiosi affermano che Il covid rischia di lasciare in Italia cinque milioni di persone in avanzata precarietà e cinque milioni di poveri assoluti. Di questa cifra mastodontica quanti pensiamo che ne erediteremo in Calabria? Da noi la miseria non è mai stato un fenomeno sconosciuto, anche se è apparso in passato spesso attutito dalla piccola economia autarchica delle famiglie, fatta di piccoli sussidi e dell’abitudine a secoli di lavoro nei campi, di isolamento e di lotta per la sopravvivenza. Molti comuni sono in dissesto, quindi significa che non possono programmare nulla, neanche i servizi essenziali. Abbiamo il maggior numero municipi commissariati per mafia. Da qualche tempo anche alcune aziende sanitarie seguono la stessa sorte. La criminalità calabrese è diventata pervasiva in molti territori fuori dai nostri confini. Di recente un periodico di qualità, sul tema, ha fatto un’osservazione acuta: “la ‘ndrangheta, a differenza della altre mafie, ovunque arriva, non si limita a fare affari o a riciclare i propri soldi. Fa di più: riproduce senso e identità, rigenera il modello di comunità e i (dis)valori originari, insediando le proprie strutture criminali in un legame indissolubile con i vertici dell’organizzazione in Calabria”.
Il territorio è da sempre in pieno dissesto idrogeologico, come ci narra la storia ed anche la letteratura della nostra regione. Anni fa abbiamo visto un paese del Vibonese sfaldarsi in diretta televisiva. Il livello di assistenza sanitaria non è, secondo il mio parere, tanto basso da giustificare un esodo annualmente imponente di corregionali verso gli ospedali del Nord. Il fatto però di essere commissariati da oltre dieci anni, non attraverso grandi manager sanitari ma attraversso alti dirigenti delle forze dell’ordine, come se questa regione fosse una colonia penale, non solo non ha impedito liste d’attesa tra le più lunghe d’Europa, ma ha procurato altri danni. Ha automaticamente imposto, sempre da oltre dieci anni, il più alto carico fiscale immaginabile sulla pelle dei calabresi e ha suscitato un supplemento di sfiducia nei nostri malati. E’ vero che un tale esodo c’è sempre stato in Calabria, ma mai in questa dimensione sconfortante. Il territorio si va spopolando, nel 2018, secondo Svimez, con le sue 14.800 unità ha presentato il più alto tasso migratorio. Di più. la nostra regione presenta un’alta perdita di capitale umano e una grave caduta di natalità, sconfiggendo in quest’ultimo caso un’antica, fulgida, tradizione procreativa, presente da secoli nel territorio. La disoccupazione e la dispersione scolastica hanno toccato vette non più insopportabili.
“In Calabria un bambino su due” – come ha stabilito una ricerca Invalsi del 2019 – “fa fatica a comprendere un testo scritto”. I giovani di qualità fuggono via impoverendo drammaticamente il territorio. Una delle ultime ricerche di Unicef Italia sul Neet (giovani che non studiano, non lavorano e non seguono nessun percorso di formazione) afferma che tale categoria di giovani raggiunge una percentuale del 36,2 per cento nella nostra regione. Tutte queste cose insieme significano che fra venti anni il destino sociale del nostro territorio sarà segnato in forma irreversibilmente negativa. Ma oltre a quello sociale esiste un dato immateriale che accennavo all’inizio, e che dovrebbe spaventarci: la nostra demonizzazione di massa. Un dato che la classe politica, che si trova da tempo in una campagna elettorale anticipata per le elezioni regionali d’autunno non dovrebbe cavalcare, perché alla lunga, nel migliore dei casi, ci condanna all’insignificanza. E per un soggetto politico che dovesse vincere le prossime elezioni diventa difficile battersi se si è insignificante. Nella fantasia del Paese, infatti nella semplificazione dei media, nel dilagare emotivo dei social, gli stereotipi che da sempre ci accompagnano la fanno da padroni, aduggiando meriti e qualità dei calabresi. Il leggendario Walter Lipmann in uno scritto di molti anni fa afferma che quando uno stereotipo è ben radicato “la nostra attenzione si rivolge a quei fatti che lo appoggiano e si distoglie da quelli che lo contraddicono”.
Accolgo a questo punto l’invito del giornale a scrivere anche da attore politico del passato. Nella mia esperienza alla guida della regione – un avamposto di osservazione ragguardevole – ho colto la veridicità e la forza devastante dell’assunto di Lipmann. Mi sono di conseguenza battuto, insieme alla giunta regionale che ho presieduto, per mitigare la radicalità di certi stereotipi che ci affiggono. Ho tentato infatti disperatamente di creare antidoti alla teoria di Lipmann. Faccio qui di seguito alcuni esempi. Ho cercato di valorizzare al massimo l’esperienza di Domenico Lucano nel comune di Riace che procedeva in totale controtendenza rispetto alla terribile pubblicistica imperante, il cui culmine si toccò con l’efferato omicidio del povero Franco Fortugno. Sono riuscito a convincere il grande regista tedesco Wim Wenders a visitare Riace, un paesino che dista pochi chilometri da Locri, dove era stato ucciso il vicepresidente del Consiglio regionale. Il mio sotteso intendimento era tentare di dimostrare come in tutte le realtà convivono fatti orribili e il loro rovescio. Siamo riusciti a tal fine come regione Calabria a produrre, insieme ad un privato, un cortometraggio “Il Volo”, scritto e girato, appunto, da Wim Wenders, la cui trama è la biografia di un sindaco sognatore che trasforma il dramma dello spopolamento del suo paese nel sogno dell’accoglienza. Un rito, quest’ultimo, che in Calabria affonda le radici nella notte dei tempi. Quando nei paesini lungo la costa noi calabresi, convinti che il mondo appartenesse a tutti, aprivamo la porta a ogni viandante sconosciuto, arrivato inatteso sull’uscio di casa. Di più. Bombardato dalle notizie che comparivano di frequente sulla stampa del tempo in cui si affermava che alcuni prodotti medicali costavano in Calabria 4-5 volte di più rispetto al prezzo praticato nel resto d’Italia, ho istituito come regione la prima stazione unica appaltante d’Italia e ho chiamato a guidarla un Pm severo.
Ancora. Ho reagito alla critica sarcastica, mossami a palazzo Chigi dal ministro dell’economia del tempo, durante il primo incontro dei presidenti di regione con il governo nazionale (siamo nel 2005 e il premier era Berlusconi) sui fitti che la regione pagava ai privati nella sola Catanzaro, dove risiede la Giunta. La cifra si aggirava intorno 7 milioni di euro l’anno, 14 miliardi di vecchie lire. Una cifra enorme sottratta ai bisogni reali dei calabresi. Mi sono impegnato in quella sede a costruire una sede propria, dove far convergere tutti gli uffici regionali. Un impegno assunto più volte in passato dalla politica regionale, ma mai realizzato perché spesso da noi capita che la forza degli interessi individuali ha la meglio su quelli collettivi. Malgrado il blocco dei lavori da parte della Sovrintendenza alle belle arti, durato oltre due anni, la sede, durante il tempo della mia legislatura, vide la luce. Riuscimmo a costruire in ferro e cemento armato l’intero scheletro della Cittadella portato a termine dal mio successore. Come ricordò con esattezza il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel corso della sua visita alla struttura di qualche anno fa.
Chiudo convenendo sul fatto che all’epoca non c’era la crisi di oggi, ma questa rappresenta, semmai, una ragione di più per battersi sui problemi veri della Calabria, non su quelli frivoli della propaganda politica