Amo il mio lavoro da infermiere di Pronto soccorso, ma mi licenzio. E non sono l’unico: negli ultimi tre mesi altri sei infermieri se ne sono andati». Pavels Krilovs, nato in Lettonia 35 anni fa ma cresciuto a Reggio Calabria dall’età di 11 anni, ha lavorato per cinque anni al Ps dell’ospedale Sant’Orsola. Prima era stato tre anni in un Ps del Friuli. Lunedì 31 marzo è stato il suo ultimo giorno di lavoro per il Policlinico. Sarà ufficialmente fuori servizio dal 17 aprile. Tornerà a vivere (e a lavorare) a Reggio Calabria. Nella sua decisione hanno pesato, in ordine: il costo della casa, uno stipendio non commisurato alle responsabilità (e al costo della vita), i carichi di lavoro, le ripetute e crescenti aggressioni subite dalla sua categoria che, di fatto, è la prima linea in un Pronto soccorso. Pavels, lei è uno dei tanti (tantissimi) infermieri che stanno lasciando un lavoro sicuro. Una «fuga» che inizia a diventare preoccupante. «Lascio innanzitutto perché non è più garantito il diritto all’abitazione a Bologna. Io guadagno quasi 2mila euro, ma una città che ti porta via quasi 1.000 euro se vuoi andare a vivere da solo non è più sostenibile. E non ritengo dignitoso, a 35, 40, 45 o più anni condividere ancora l’appartamento con qualcuno».
Cosa che lei sta facendo?
Ho 35 anni e ho una stanza singola in un appartamento con altri tre colleghi infermieri. Bologna e le grandi città ci stanno privando del diritto primario di una casa. Ma le persone che guadagnano di meno come fanno? Io l’avevo scelta questa città, 8 anni fa sono andato via, ma nel 2020, con la seconda ondata del Covid ho voluto rientrare a lavorare qui perché il Policlinico è un buon posto di lavoro».
Un buon posto che non basta a farla restare, però.
«Se devo sbattermi così tanto qui, ma non posso nemmeno permettermi una casa da solo, che senso ha? Torno a Reggio Calabria dove ho già un appartamento e la vita è sostenibile. Ho diversi amici colleghi con figli che si trasferiscono qui per fare gli infermieri e poi se ne vanno via perché non arrivano a fine mese o mettono tutto lo stipendio per sopravvivere. E poi ce ne sono altri che vincono i concorsi, provano a trasferirsi, ma non trovano casa e rinunciano al posto».
Quanto ha pesato la pressione del Pronto soccorso nella sua scelta?
«Io amo molto il mio lavoro, lo scelsi anche perché c’era tanto lavoro, quando iniziai a studiare. Poi dell’emergenza mi sono proprio innamorato. Ma qualunque ospedale grande non guadagna con l’emergenza, l’emergenza ha solo dei costi. E le aziende tagliano. I professionisti che scelgono l’emergenza restano nei Ps per passione, ma io guadagno lo stesso stipendio di un collega in laboratorio o in reparto. In Ps si sta 12 ore in piedi e bisogna restare attenti e vigili da quando entri a quando esci. Non puoi mai mollare, non sai mai cosa ti arriva. In triage siamo noi infermieri a prenderci la responsabilità di assegnare codici e tempi di attesa ai pazienti, abbiamo a che fare con i farmaci salvavita. Ma tutto questo non viene premiato o incentivato economicamente, nessuno lo riconosce. Quindi non ci si stupisca se ci si licenzia o si va nel privato».
Parliamo dell’esodo nel privato. È lì che andrà anche lei?
«Sì, andrò nel privato a Reggio Calabria. Il privato della frustrazione della mia categoria si è accorto benissimo e un infermiere lo paga anche 30 euro all’ora. I professionisti che lavorano nel pubblico non hanno più la mira del posto fisso, se ne vanno via in massa. Se il posto pubblico in una città come Bologna, per esempio, non consente nemmeno più di pagare l’affitto, che ci si resta a fare?».
E poi ci sono le aggressioni che ormai nei Ps sono all’ordine del giorno…
«Ogni giorno si subiscono aggressioni verbali e, quando sono solo verbali, va già bene. Non parlo di offese generiche o insulti, parlo anche di minacce di morte, minacce di accoltellamento, gente che sputa, che morde, che può usare i nostri strumenti di lavoro potenzialmente come armi. Arrivano in Ps agitati, strafatti, alterati: bisogna gestirli e contenerli, lavorare diventa difficile. Per non parlare di quanto è difficile per le mie colleghe donne. Sono stato spesso a disagio, in parte spaventato».
Quindi alla fine è stato facile scegliere di andarsene?
«Assolutamente no. Mi sono preso un paio di mesi per decidere. Ho riempito fogli su fogli con i pro e con i contro. Ho scritto per settimane facendo lunghissime liste. Bologna aveva comunque più pro di Reggio Calabria, se devo dire il vero, ma alla fine è stato necessario forzare questo cambiamento. Finalmente lavorerò retribuito meglio e avrò una casa mia nella città dove sono arrivato da ragazzino e dove sono cresciuto».
(Fonte: corrioere.it)