“Non ricordo bene ma penso di essere entrata in uno stato confusionale. Non sapevo cosa fare e che decisioni prendere. So per certo di non essermi recata in clinica con l’intento di sottrarre un bimbo alla propria madre”. Davanti al pubblico ministero e al gip che l’hanno interrogata, sono queste le parole di Rosa Vespa, la donna fermata la sera del 21 gennaio dopo aver rapito, all’interno della casa di cura “Sacro Cuore” di Cosenza, la piccola Sofia Cavoto, una neonata di appena un giorno ritrovata dopo 3 ore dalla squadra mobile. Stando a quanto scrive il giudice per le indagini preliminari Claudia Pingitore nell’ordinanza di convalida dell’arresto, una volta all’interno della clinica, Rosa “iniziava a vagare in uno stato di sempre minore lucidità”. Ai magistrati, infatti, la donna ha riferito di essere stata “attratta da un neonato che era in culla”. “Mi presentavo come puericultrice ai presenti riferendo che dovevo lavarlo – ha messo a verbale – Dopo averlo preso con la massima cautela mi portavo nei corridoi e, a mia insaputa, mi ritrovavo davanti mio marito con la navetta (l’ovetto per il trasporto dei neonati, ndr)”. Più passano i giorni e più la storia del rapimento di Sofia sembra andare oltre la cronaca. Se così sarà, lo stabilirà il giudice che, su richiesta dell’avvocato Teresa Gallucci, ha già autorizzato che Rosa venga visitata da un medico. È presto per parlare di perizia psichiatrica, ma è sufficiente leggere l’ordinanza per rendersi conto che l’indagata era precipitata in quella che lei stessa descrive “una situazione di forte disagio psicologico” in cui, a 52 anni, si sentiva una “donna a metà” perché non era riuscita a realizzare “il suo sogno di avere una bella famiglia e dei figli”. Tutto ha avuto inizio lo scorso maggio quando, “a fronte dell’assenza di ciclo mestruale, che si prolungava da due mesi, – si legge nell’ordinanza – l’indagata si convinceva di essere rimasta incinta”. Da quel momento, forse per paura di ricevere un responso negativo dai medici, Rosa non ha cercato “riscontri clinici a tale ‘autodiagnosi’. Durante tale periodo aveva subito le trasformazioni tipiche dello stato gravidico, vale a dire l’ingrossamento del ventre e del seno ed aveva altresì sofferto di amenorrea (assenza di ciclo, ndr)”.
Comunicata la lieta notizia al marito e ai familiari, agli stessi però non ha mai riferito delle successive perdite mestruali continuando, quindi, a sostenere di essere gravida. “Tale messinscena – si legge nelle carte – veniva portata avanti dalla Vespa nei mesi seguenti e ciò anche grazie alla sua robusta corporatura che le consentiva di simulare ancor meglio tale stato. Nel corso dei mesi si faceva accompagnare dal marito o dalla madre presso la clinica ‘Sacro Cuore’, per quattro o cinque volte al fine, a suo dire, di sottoporsi ai controlli medici di routine, comunicando poi ai familiari di essere in attesa di un maschietto ed indicando l’8 gennaio 2025 quale data presunta del parto”. Durante i finti controlli, inoltre, “chiedeva all’accompagnatore di turno di attendere fuori dalla clinica”. Ed è per questo che tutti le hanno creduto, compreso il marito Moses Omogo Chiediebere, detto “Acqua”, il nigeriano di 42 anni fermato dalla polizia, portato in carcere e poi rimesso in libertà dal gip perché “del tutto inconsapevole”. Moses – si legge nell’ordinanza – è stato “vittima degli inganni della moglie”. L’uomo, infatti, “si recava in clinica sicuro di andare a riprendere suo figlio, fornendo alla moglie la sua normale collaborazione (come accade per tutti i neogenitori)”. Tornando alla ricostruzione dei fatti, a inizio mese il castello di bugie iniziava a scricchiolare. Tra l’8 e il 9 gennaio, quindi, Rosa Vespa ha riferito a Moses di trovarsi in clinica ma, in realtà, aveva preso una stanza all’hotel Royal, poco distante dal “Sacro Cuore”. Gli accertamenti dalla mobile hanno confermato che Rosa aveva trascorso, da sola, quella notte “presso tale struttura alberghiera” e da lì, con il suo cellulare “aggiornava l’Omogo in merito alle fasi precedenti al parto comunicandogli poi la nascita del bambino”. Sul suo telefono, inoltre, gli investigatori della polizia hanno verificato un “download di due immagini raffiguranti un bambino appena nato, sorretto dai sanitari ed in parte coperto di sangue”. Foto finte e inoltrate ai familiari “ai quali diceva che sia lei che il bambino avevano contratto il Covid e che pertanto, i sanitari non le consentivano di ricevere visite”. Il rientro a casa avviene la sera del 9 gennaio. Ovviamente da sola perché il figlio, mai nato e sempre positivo al virus, “sarebbe stato trattenuto ancora per qualche giorno dai sanitari”. Ormai incastrata nel suo vortice di falsità, Rosa continuava a recitata la sua parte: “L’Omogo – scrive il gip – vedeva la moglie tirarsi il latte da portare poi al bambino, circostanza sicuramente anomala (che potrebbe essere evocativa di una ipotetica gravidanza isterica) e che viene incidentalmente affermata anche dal cognato”. Ciò “era avvenuto talora anche in presenza della madre” che “stava preparando una piccola festa di benvenuto per il nipotino”.
Il 21 gennaio arriva “il culmine di una farsa orchestrata ed ordita per circa nove mesi (all’inizio verosimilmente in maniera inconsapevole) e della quale Rosa aveva ormai perso il controllo, non essendo più in grado di inventare pretestuose giustificazioni con i suoi familiari in merito alla sorte del neonato”. Messa alle strette “anche dalla comprensibile insistenza del marito, in un disperato tentativo di mantenere integro quel mendace castello costruito, Rosa decideva di prelevare uno dei neonati presenti in clinica, forse nell’assurda speranza di poter continuare a fingere e a fornire all’esterno una felice narrazione della propria esistenza: dopo un primo tentativo non andato a buon fine l’indagata accedeva nella stanza della Chiappetta (Valeria, la madre della neonata rapita, ndr) e qui, presentandosi quale puericultrice, prelevava la piccola Sofia dalla culletta con il pretesto di doverle cambiare il pannolino, quindi si allontanava velocemente coprendo la bambina con il suo giubbino, all’evidente fine di non renderla visibile e di non essere scoperta. Giunta all’ingresso, ove l’attendeva l’(ignaro) marito, la Vespa andava via di fretta, decidendo di non adagiare la piccola nella navetta e (la) conduceva poi a casa sua”. Dove i familiari erano tutti vittime del raggiro. Il primis il marito per il quale il gip, dopo l’interrogatorio, ordina l’immediata scarcerazione: “A meno di non voler ritenere di trovarci dinanzi ad un ben orchestrata ideazione a carattere familiare, – si legge nell’ordinanza – ritiene questo giudice non irragionevoli i dubbi e le perplessità in merito al ruolo effettivamente svolto dall’Omogo, alla stregua dei quali, infatti, il pm decideva di non avanzare alcuna richiesta di misura cautelare”. Il gip Pingitore ribadisce più volte l’estraneità del nigeriano, “soggetto dalla personalità chiaramente soccombente rispetto a quella della moglie”: “Si potrebbe obiettare – scrive il magistrato – che appare impossibile che l’Omogo non si sia mai avveduto del finto stato di gravidanza della moglie convivendo nella stessa abitazione e condividendo lo stesso letto. Ciò, tuttavia, era possibile in ragione della effettiva trasformazione fisica subita dalla Vespa durante quei mesi, del tutto analoga a quella delle donne incinta”. Altrettanto chiara è la posizione di Rosa Vespa per la quale il gip, oltre al “pericolo di reiterazione di analoghe condotte delittuose”, sottolinea “l’elevata pericolosità sociale”: “L’imputata, – si legge infatti nell’ordinanza di arresto – con inusitata insensibilità e preoccupante egoismo dettato soprattutto da un impellente desiderio di maternità, non si faceva scrupoli a prelevare una bimba appena nata, sottraendola all’amore ed alle cure dei genitori, assolutamente noncurante delle gravi conseguenze derivanti da tale assurda condotta che, verosimilmente, non sarebbe stata in grado di gestire nell’immediato futuro e ciò esclusivamente al fine di non deludere il marito ed i suoi familiari, proteggendoli da una impensabile verità”.
(Fonte: il fatto quotidiano.it)