Abbiamo incontrato il noto attore Paolo Ruffini, prima della pièce teatrale “Quasi Amici” che grazie ad AMA Calabria è stata rappresentata presso il Teatro ‘Grandinetti’ Comunale di Lamezia Terme. Una persona affabile che, con empatia immediata, ti mette subito a tuo agio.
Lei in “Quasi Amici” interpreta il ruolo di una persona che, per non essere ipocrita a volte diventa impietoso. Nella vita comune è fattibile un tale tipo di comportamento?
Guardi io mi ci ritrovo molto nel personaggio, non mi vergogno. Lei ha detto impietoso io direi di più spietato, privo di pietà. Nel senso che non vede nella disabilità di Filippo (ndr -l’altro protagonista interpretato da Massimo Ghini) differenza, quindi se lui è particolarmente antipatico, severo, astioso e glielo comunica in maniera anche grezza non si pone il problema, non vede un disabile vede una persona e io credo che questa spietatezza non vuol dire essere non in empatia. La pietà etimologicamente parlando e l’empatia quindi credo che a volte la pietà è proprio quel muro che corrisponde a una certa ipocrisia morale che porta di fronte a un disabile a dire “poverino”. Ecco io credo che un disabile abbia voglia di sentirsi dire tu vali quanto me.
In questa rappresentazione si parla dunque di disabilità. Possiamo considerarla come ambasciatore “positivo” delle persone con disabilità? Ci riferiamo in particolare anche allo spettacolo “Up & Down”…
Io lavoro con persone disabili da tanti anni e sono venuto con lo spettacolo anche qui in Calabria. Approfitto per stabilire questo contatto e per ringraziare Ama Calabria e spero che ci sia occasione di tornare con lo spettacolo perché è una regione particolarmente sensibile e sono convinto che ci sarebbero margini per lavorare bene. “Ambasciatore”… penso quando mi fanno i complimenti, mi dicono che bel progetto come se io fossi un filantropo invece è palese il mio egoismo. Io non so se faccio bene a questi attori con disabilità, sicuramente loro fanno bene a me. E quindi è più un bene per me. Lavorare con le persone che hanno la sindrome di Down è stupendo, le persone che hanno i cromosomi cosiddetti normali sono banali. Siamo in un periodo storico talmente banale, talmente noioso, con tutti sti filtri su Instagram con un sistema che si chiama Social contrario al Sociale un non territorio dove vince l’odio la prevaricazione ed il sopruso. Io quando sto con loro e parlo con loro, mi sembra di parlare con persone che sono più vicine alla mia vita. Io da stamani parlo con persone, ma non so manco di cosa, se lei mi chiede di che cosa ho parlato da stamattina al telefono per lavoro le risponderei di cose futili, inutili. I ragazzi down non hanno filtri non hanno mezze misure e poi abbracciano, abbraccio più quando sto con loro, i primi 20 minuti stiamo ad abbracciarci, poi cominciamo a parlare con lentezza. Insomma è una vita molto più bella da quando li conosco.
Lei oltre che essere attore, è sceneggiatore ed anche regista sta per uscire un suo film nelle sale cinematografiche. Perché ha deciso di stare anche dietro la macchina da presa, dietro il palco, perché vuole raccontare le cose a modo suo?
Ma perché la regia è come essere un direttore di orchestra all’incontrario. Nel senso che un direttore d’orchestra deve conoscere lo spartito di ogni strumento, grande conoscenza e deve avere chiare le cose in testa. Ma per come la vedo io ci vuole anche un po’ di approssimazione. I ponti si costruiscono in un modo altrimenti crollano le persone si operano in un modo altrimenti muoiono, noi non serviamo vite il nostro lavoro è futile è approssimativo come la vita però allo stesso tempo la cultura fa parte della salute perché un paese senza cultura è un paese di scemi e io sono diventato regista per la voglia di raccontare delle cose che pensavo potessero essere interessanti anche per qualcun altro storie che magari emozionavano me e supponevo potessero emozionare qualcun’altro. Grazie a questa esperienza ho fatto delle cose interessanti, ho fatto un documentario sull’ Alzheimer che si chiama “Perdutamente” ho fatto un film dedicato ai ragazzi che parla di un bullo e di quanto si sentisse isolato a casa in punizione durante l’epoca del covid, durante il lockdown. Ho sperimentato che il cinema come il Teatro ti consente di poter esprimere anche tanto dolore senza che si faccia male a nessuno, l’arte è così. L’arte è scorretta nel tempo del “politicamente corretto” rivendico veramente con piacere e con onore la scorrettezza dell’arte.
Paolo Giura