Rinfrancati da un lieve rialzo degli ascolti (ma sempre in perdita sul 2020), la quarta serata del festival è già in area otto marzo ed ecco che la polemica è servita. Pesantuccia. Amadeus ha la memoria corta: l’anno scorso aveva presentato la modella Sofia Novello come bellissima statuina “un passo indietro” del fidanzato campione Valentino Rossi e per poi farsi perdonare proponendo monologhi pseudo femministi (ma in uno dei due una Diletta Leotta oggettivamente ridicola che esaltava la bellezza naturale fu massacrata dagli haters). Adesso il conduttore torna alla carica introducendo la prima partner della puntata, la musicista Beatrice Venezi, appellata come direttore d’orchestra, al maschile. Amadeus si giustifica: “Non ho detto direttrice perché è lei che vuol essere chiamata così”. La bionda e flessuosa Venezi approva con un’argomentazione sconcertante: “E’ il nome di una professione ed è da sempre così, io sono fiera di questo titolo”. Insomma, poiché qui non si tratta di declinare per la prima volta al femminile termini acquisiti ma di usare un termine esistente, aspettiamoci ora che qualcuno al festival definisca Matilda De Angelis “attore”. Del resto, quali ulteriori commenti potrebbero esserci sul tema se ancora sul web si scatenano i pruriti dei voyeur per l’abito della cantante Gaia, dove si notano i segni dei capezzoli? Ovvero, nei secoli dei secoli il lavoro è maschio e l’avvenenza è femmina: bentornato Medioevo.
Ma con il forfait coatto per l’altra regina della serata – Simona Ventura, contagiata dal virus- la padrona di casa all’Ariston è Barbara Palombelli. Per la giornalista il sessismo è ampiamente risarcito da una comica parodia della hit d’epoca “Siamo donne” con Amadeus e Fiorello imparruccati come le sorelle Bandiera al posto delle bonazze vintage Salerno-Squillo. Invece no, non basta. A Sanremo Palombelli è la star del tradizionale monologo impegnato. Il festival e le canzoni le offrono uno spunto per raccontare i cambiamenti del paese, da Celentano al suicidio di Luigi Tenco, da Gino Paoli a Gigliola Cinquetti. Ma è anche la sua storia: il padre l’avrebbe voluta dolce e garbata come la Cinquetti di “Non ho l’età”, lei era ribelle e amava le moto. La stima di quel padre l’ha conquistata lavorando. Prima del giornalismo si è industriata con mille mestieri e nel frattempo ha scoperto il femminismo. Oggi è il momento di passare il testimone. “Ragazze – dice la giornalista – non dovete mai arrendervi, bisogna continuare a ribellarsi. I diritti che avete voi li avete trovati già fatti, noi abbiamo dovuto costruirli. Ma non si deve mai smettere di lottare”. Stare zitte non serve comunque, “tanto non andremo mai bene, non piaceremo mai ai nostri padri, fratelli, mariti. Ci picchieranno, ci umilieranno, non saremo mai perfette per nessuno”. Ogni donna lo sa e si è riconosciuta. Le parole di Barbara fanno bene al cuore e soprattutto uniscono – ce n’è bisogno vitale, siamo atavicamente divise e competitive e ormai dovremmo aver imparato quanti danni faccia quest’autolesionistica sindrome del pollaio. Resta il fatto che, venendo da lei, è un femminismo all’acqua di rose – quindi bene ma non benissimo, e alle donne che lottano veramente il vaffa un po’ parte.
Lo show di Achille Lauro è un tripudio di eccessi. Nel solito prologo da guru trasgressivo, il verbo di Achille una cosa giusta la dice: “Dio benedica chissenefrega” – sì, lui lo pronuncia proprio così, la sora Lella sarebbe stata orgogliosa. Entra in scena nei panni di una lasciva sposa vestita di piume – ma sventola una bandiera tricolore. Nel catalogo di cliché provocatori (con Boss Doms baci in bocca e volgari flessioni ad altezza cavallo dei pantaloni dell’amico) il glam rock oggetto dell’esibizione, la “Me ne frego” ascoltata al festival dell’anno scorso, viene eclissato. La stessa citazione patriottica, affatto funzionale, pare messa lì a caso e subito termovalorizzata nel calderone di pose scandalose. Con Lauro duetta Fiorello, che ha preso gusto alle mise carnevalesche e partecipa al quadretto indossando un copricapo di spine sinceramente evocativo di un uccello del malaugurio: speriamo che non fosse una metafora dell’Italia. Ad Achille Lauro resterà almeno il merito di aver ristabilito una parità sessuale dell’ormone deliziando l’occhio delle (e dei) suoi fan quanto e più delle varie signore e signorine “acchiappa spettatori maschi”.
Altro outfit quantomeno originale è quello del superospite Mahmoud, a metà tra un prete e un samurai, mentre è sempre elegantissimo (su questo non gli può dire nulla) Zlatan Ibrahimovic, nonostante la sua simpatia da esattore fiscale e l’insopportabile sigletta balcanica che lo accompagna.
In tema di mascherate, Max Gazzé si trasforma in un Salvador Dalì pop con numero calcistico glitterato sul retro della giacca. E Aiello prova a puntare sull’effetto scenico con una maglia aperta sui fianchi e una specie di mantello di piume nero (anche qui viene un po’ l’istinto di fare scongiuri). Ma non tutti sono i Maneskin, sempre impeccabili a giocare con l’ambiguità, capeggiati dal dandy Damiano, capace di spargere erotismo ad ogni movenza. La stessa band guida decisamente pure il fronte del turpiloquio sdoganato: quest’anno le parolacce fioccano come non mai nei testi delle canzoni in gara. A calibrare ci pensano i romantici Fedez-Michielin con i microfoni legati da un nastro rosa (a proposito di microfoni, possibile che ogni sera se ne guasti uno?)
Nella sezione giovani trionfa Gaudiano, che dedica il premio al padre scomparso e si commuove: “Lui è qui con me, adesso, io lo sento”. Dopo il terremoto del giudizio della sala stampa, che ha sparigliato tutte le carte, nella classifica definitiva della semifinale la situazione inizia a farsi seria. Sempre in testa alla top ten c’è Ermal Meta, seguono Willie Peyote, Arisa, Annalisa, Maneskin, Irama, la Rappresentante di lista, Colapesce e Dimartino, Malika Ayane e Noemi. Domani conosceremo il nome del vincitore del 71esimo festival di Sanremo.
Defenestrato quell’obbrobrioso carrello stile ospedale, restano intatti i fiori simbolo di Sanremo. Il festival li regala agli artisti (stravolgendo le convenzioni molte donne li cedono ai partner di palcoscenico maschi) e loro ricambiano dedicando ai lavoratori dello spettacolo, nell’ora più dura, l’applauso ideale che il pubblico non può dare. La standing ovation all’unico lavoro che “dà luce a chi lo fa” saluta il monologo di Alessandra Amoroso con l’attrice Matilde Gioli: “In questo periodo ogni giorno abbiamo paura di non farcela, di non tornare ad avere la vita di prima, di perdere tutto quello per cui si era lottato, studiato, lavorato. Per questo noi come voi, vorremmo provare a tornare a sognare”. L’unica certezza di queste settimane durissime e incerte è che la musica riscalda l’anima ed è un bene essenziale. L’applauso solenne alla resiliente big family dello spettacolo ha in sè la silenziosa speranza che questo festival possa essere un talismano. Il Sanremo del nonostante, con le poltrone vuote, è il whatever it takes degli artisti.
Isabella Marchiolo
Sanremo, tra le canzoni irrompono il femminismo e la resilienza dei lavoratori dello spettacolo
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