Ilaria Colombraro si è laureata all’Università della Calabria discutendo la sua tesi sulla sicurezza sul lavoro, infortuni e morti bianche, facendo riferimento in particolar modo al caso di sua cugina, Luana D’Orazio, giovane operaia morta lo scorso 3 maggio in un’azienda tessile in provincia di Prato, mentre lavorava ad un macchinario. Un caso mediatico di cui si è parlato e si continua a parlare ancora adesso.
«È stato un viaggio lungo e necessario». Il momento più commovente? «Quando la zia mi ha messo la corona d’alloro in testa». È stata proprio la zia Emma — la madre della ventiduenne trascinata dall’orditoio a cui lavorava quel tragico giorno a Montemurlo — a rendere omaggio per prima alla nipote all’uscita dalla discussione.
«Io e Luana ci volevamo molto bene. È divenuta un simbolo e non potevo non considerarlo. Parliamoci chiaro — spiega la dottoressa Colombraro — oramai è diventata una strage: dalla tesi emerge una situazione critica, anche peggio del passato. La storia di Luana ha toccato tutto il Paese ed è giusto che anche a livello accademico si diffonda una cultura della sicurezza».
Quando è avvenuta la tragedia Ilaria si trovava proprio all’università, a Cosenza: «Mi chiamò mio fratello, ero incredula. Sono scesa subito a Strongoli Marina (Crotone), il paese di origine di tutta la famiglia, compresa zia Emma».
L’indomani sono tutti partiti per Pistoia, dove Luana D’Orazio abitava. Alla guida della macchina c’era proprio Ilaria. Che spiega il rapporto con la cugina: «Ci sentivamo quasi tutti i giorni, prendevo spesso il pullman, il treno, l’aereo e venivo a trovarla. Sono un po’ introversa ma ci volevamo bene, sono stata anche la madrina della sua cresima».
«Luana è morta a causa della manomissione di un orditoio, il macchinario al quale lavorava e che serve per comporre i tessuti. Quel maledetto giorno, quando si è avvicinata al macchinario per dare il comando nella cosiddetta modalità lepre (fase alquanto pericolosa e che prevede si debba abbassare una grata in modo da far da sbarramento tra l’operatore e il macchinario); quel giorno quella grata non si è abbassata perché erano stati disattivati i sistemi di sicurezza.
Anzi, addirittura, erano stati creati dei cavi in modo da fare da ponte proprio per evitare che la lavorazione si bloccasse. Come si evince dalla perizia, Luana è stata agganciata dai vestiti da una staffa lunga e sporgente, non conforme all’originale (che invece è liscia e tonda proprio per evitare al minimo il rischio di incaglio) ed è stata inghiottita in questo abbraccio mortale.
Solo dopo un pò un dipendente si è accorto dell’incidente ed ha dato lo stop al motore, ma ormai era troppo tardi.»
Il lavoro di ricerca conclusivo del suo percorso universitario — con cui ha conseguito la votazione di 104 — è intitolato «Sicurezza sul lavoro, infortuni e morti bianche: il caso di Luana D’Orazio». In copertina c’è proprio la ventiduenne sorridente, che in uno scatto di qualche anno fa esprime tutta la sua gioia di vivere.
«L’anno scorso — continua a raccontare Ilaria — quando mi mancavano pochi esami, avevo dato indicazione su un titolo provvisorio incentrato sul capitale umano e i giovani. Dopo la tragedia ho virato subito su questo caso, aiutata e sostenuta dal mio relatore, il professor Pietro Iaquinta, che ha creduto in questo tema e in me».
Infine la sua conclusione: «La sicurezza si fa con i soldi e dove c’è miseria e poco margine si lavora male perché il lavoro in condizioni di disagio produce tagli, sacrifici e non si perde tempo in formazione e a fare le corrette manutenzioni ai macchinari. Ad influenzare tale situazione potrebbe essere stata l’affermarsi dell’epidemia di COVID-19 dove si è susseguito un periodo di blocco con il cosiddetto “lockdown”.
Questo, però, a mio avviso, non può e non deve essere un alibi per giustificare la continua strage sui luoghi di lavoro PERCHE’ SI DEVE LAVORARE PER VIVERE E NON PER MORIRE!».
(fonte: cosenzaduepuntozero.it)